Cultura

Alveare. “La salsa”. La rubrica di Rino Negrogno

La Redazione
Il rito della preparazione della salsa
Si lavorava di notte perché in quel tempo, spesso "se ne andava l'acqua" già verso mezzogiorno. Dopo, parte dei pomodori venivano bolliti, macinati e la salsa versata nelle stesse bottiglie dell'anno precedente
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Di questi tempi si “faceva la salsa”. Una tradizione che si rispettava anche a casa mia. Abitavamo in un unico stabile in periferia: mia nonna, mia zia e noi; almeno allora era in periferia e le strade apriche disegnavano un cono d’ombra che si perdeva ai piedi del campanile della chiesa di San Giuseppe dove don Aldo amava starsene sul nartece ligneo, avvampato nel sole del tramonto. In fondo ci conoscevamo tutti: la maestra Bevilacqua e il maestro Tarantini, mio zio e mio padre infermieri e di fonte gli infermieri Nenna e Manzi, don Andrea Roselli al primo piano; poi le prime ragazze da desiderare: Annalisa, Ketty, Silvia, Annamaria, Danila…

Come al solito mi perdo nelle digressioni. Sarà che il sole stamattina creava specchi di miraggio sull’asfalto e faceva di tutto per riportarmi indietro nella memoria. Noi abitavamo al quinto piano, al quarto mia nonna e al terzo mia zia Mamma. Sì, la chiamavamo zia Mamma, era la sorella grande di sei figli, e quel singolare appellativo gliel’avevo dato io quando avevo due o tre anni, perché mia madre lavorava per il maglificio Motti e restava fuori per tutto il giorno, quindi io venivo accudito da mia zia Lucia, ma non mi spiegavo come mai i miei tre cugini seguitassero a chiamarla mamma con insistenza e io avrei dovuto chiamarla soltanto zia. Fu così che coniai quel giusto compromesso: zia Mamma.

Ma credo vi stessi parlando della salsa. Il rito cominciava sin dal mattino, quando trepidanti, noi sei (mio fratello Antonio, mia sorella Daniela, mia cugina Angela, mia cugina Mariantonietta, mio cugino Nuccio ed io), attendevamo l’arrivo di Mba’ Vincinz con il suo treruote carico di cassette di pomodori. Aveva un volto bruciato dal sole e le rughe intersecavano il sorriso come tagli di coltelli. Aveva un ghigno sardonico che ancor più si accentuava nello sforzo di sollevare le cassette stracolme di pomodori e si andava via via acuendo man mano che trasportava le decine di cassette fino al quinto piano (la salsa doveva bastare per tre famiglie). Noi non stavamo nella pelle, gli gironzolavamo intorno come un gregge e mio cugino imitava il suo sorriso e gli somigliava in modo impressionante.

Le cassette venivano svuotate sul balcone per poi essere volta per volta lavati nella vasca. Si lavorava di notte perché in quel tempo, spesso “se ne andava l’acqua” già verso mezzogiorno. Dopo, parte dei pomodori venivano bolliti, macinati e la salsa versata nelle stesse bottiglie dell’anno precedente. Una parte di pomodori veniva tagliata in spicchi che venivano infilati uno per uno in bottiglie più piccole. Venivano utilizzate le bottiglie della birra Peroni, questo era un lavoro riservato a noi bambini, eravamo senza iPhone del resto, quindi senza protestare (in realtà ne eravamo entusiasti) sedevamo intorno al desco della cucina e, felici, riempivamo le bottiglie.

Alcune donne venivano inspiegabilmente allontanate perché altrimenti la salsa sarebbe diventata “acida”.

Mio zio, il più anziano, aveva il compito di chiudere le bottiglie con uno strumento apposito che mi affascinava, nello sforzo faceva un po’ lo stesso sorriso di mba’ Vincinz. Successivamente le bottiglie venivano avvolte in vecchi panni e immerse nell’acqua contenuta in un grande pentolone.

Ricordo con malinconia i bambini chiassosi intorno al tavolo della cucina. E il profumo inebriante della salsa fatta in casa.

Se qualcuno ci invidiava, qualche bottiglia “scoppiava”.

Foto tratta dalla pagina Facebook Buongiorno Trani!

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Alveare 2019

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venerdì 6 Settembre 2019

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