Patrimonio e politiche culturali

Coronavirus e patrimonio culturale, sistema al collasso e come venirne fuori

Dalila Di Gioia
Allegoria del Cattivo Governo
Intervista a Luigi Di Gioia*: "Occorre riposizionare musei e patrimonio culturale fuori dal mercato e all'interno del pieno controllo pubblico"
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Economisti e analisti finanziari sono concordi nell’affermare che la crisi generata dal Covid-19 risulterà peggiore di quella del 2006 negli Usa, e passerà alla storia come la più grave dalla Grande depressione del 1929, se non anche peggiore.

L’Italia, interessata solo indirettamente dalla bolla speculativa finanziaria statunitense nel corso del 2011, da allora ha affrontato una conseguente crisi economica e dei consumi. Non ne era ancora venuta fuori e ora si appresterà, suo malgrado, a pagare il conto più salato della crisi post-pandemia.

Negli ultimi giorni non si fa altro che parlare di ripartenza, di ritorno alla “normalità”. Non sono mancati gli appelli per una ripresa delle attività culturali. Per la riapertura di biblioteche e musei è stata in indicata la data del 18 maggio. Ne parliamo con il dott. Luigi Di Gioia.

Le riaperture dei musei e il patrimonio culturale possono contribuire alla ripresa come è avvenuto negli ultimi anni?

Le due situazioni non sono paragonabili. Sebbene entrambe siano conseguenza di una crisi dei consumi, quella che ci attende ha delle dinamiche diverse.

L’Italia ha sfruttato, in questi precedenti anni di crisi, una congiuntura ad essa favorevole: nonostante l’allarme terrorismo a livello internazionale abbia generato un calo anche nei consumi turistici e culturali, il nostro Paese, considerato sicuro, ha sottratto piccole fette di mercato a destinazioni meno sicure.

Il patrimonio culturale, insieme al sole e al mare, è stato un asset importante di questa parziale ripresa. Oggi è evidente che non potrà esserlo, considerando che la mobilità interna e il turismo incoming sono, e saranno condizionati dalla pandemia e dalle restrizioni imposte: fisiche, economiche e psicologiche.

I musei sono luoghi chiusi con assenza di sistemi di areazione naturale, per ovvi motivi di conservazione delle opere: quanti di noi, con l’invito ad evitare luoghi chiusi, opteranno per una visita al museo?

Secondo la Direzione generale Musei del Ministero dei Beni culturali e del Turismo, il lockdown ha causato ai musei una perdita netta di circa 20 milioni di euro al mese, della quale un buon 90% deriva dalla soppressione delle entrate di biglietteria e, per la restante parte, dei servizi accessori.

Ma il sistema era già ad un passo dal collasso: atavica mancanza di personale e disperata ricerca di risorse per l’ordinario.

L’aver relegato, nel corso degli anni, in soffitta la propria mission culturale ed educativa, quella dettata dal codice etico dell’ICOM, per abdicare definitivamente al mercato e al turismo, ha visto i musei statali e in special modo i grandi musei dotati di autonomia finanziaria, muoversi, spesso senza competenze adeguate, verso la ricerca spasmodica di risultati quantitativi (e quasi mai qualitativi), con attività a dir poco squalificanti e che a volte hanno raggiunto il grottesco (party, feste di matrimonio, cene di gala, sfilate di moda, zumba, salse e merengue, etc.).

Viceversa, cura delle collezioni, ricerca scientifica, educazione e interpretazione del patrimonio, assunzione di personale qualificato, etc. sono voci passate in secondo piano, sotto la colonna “costi”, con accanto la casella “tagli”.

Quali saranno, dunque, le probabili conseguenze?

È evidente che oggi il Covid-19 si inserisce in una crepa già aperta che porterà questo sistema al crollo. Occorre riposizionare i musei e il patrimonio culturale fuori dal mercato e all’interno del controllo pubblico, con risorse stabili e personale qualificato. Non a caso i beni culturali un tempo erano appannaggio dell’allora Ministero della Pubblica Istruzione, mentre oggi sono associati al Turismo (MiBACT), succubi delle logiche mercantili e delle crisi del mercato.

Oggi, in questa crisi e con una riapertura incondizionata proclamata per il 18 maggio, pagherà dazio in modo catastrofico il comparto delle società concessionarie a cui sono affidati i cosiddetti “servizi aggiuntivi”, ovvero la front line tra lo Stato e il mercato: ai mancati introiti dei mesi di lockdown, il comparto dovrà prevederne ulteriori alla riapertura, dovuti alle restrizioni e al picco negativo del turismo e ai costi ordinari di gestione e sicurezza.

Se dovesse collassare il comparto, oltre alle immaginabili e gravi conseguenze sul piano sociale (perdita di posti di lavoro in primis), anche il sistema pubblico non reggerebbe: nell’impossibilità strutturale, per mancanza di personale, di gestire le biglietterie e i servizi aggiuntivi, vedrebbe polverizzarsi anche quei pochi introiti derivanti dalla bigliettazione in clima (post) pandemia.

A fronte di questa devastazione dell’intero settore culturale a farne le spese saranno i soggetti più deboli e, tra questi, i lavoratori precari e non.

Questo scenario si prospetta anche per il resto delle attività culturali: mostre, teatro, cinema?

Le imprese private che organizzano mostre d’arte ed eventi culturali hanno già gettato la spugna: niente riaperture delle mostre già in corso e nessuna inaugurazione di quelle previste. Cinema d’essai e teatri non riapriranno e quando e se lo faranno ci sarà un’impennata dei biglietti d’ingresso, determinando una esclusione, non certo democratica, del pubblico meno abbiente che pagherà il prezzo più alto della crisi.

Del resto il ministro Franceschini ha già lanciato l’idea di una Netflix della cultura: se per una élite aristocratica e fortunata ci sarà l’accesso limitato alla cultura dal vivo, per altri verrà confezionata una piattaforma a pagamento dove la cultura diviene mero intrattenimento in streaming; per tutti gli altri, la terza classe, ci saranno i video gratuiti sui canali social dei musei.

In Italia il patrimonio culturale non è solo statale, non ci sono soli i grandi musei: cosa succederà a questa ricchezza dislocata in tutto lo stivale?

E poi c’è la miriade di piccoli e grandi musei e luoghi della cultura appartenenti ad altri enti, in particolare ai Comuni, con le loro diverse forme di gestione. A fatica si riusciva a tenerli aperti a causa dei problemi dovuti alla mancanza di risorse, che da oggi saranno ancora più scarse a seguito di nuove e più urgenti esigenze che i Comuni dovranno affrontare. Molti chiuderanno al solo pensiero di dover sostenere ulteriori costi per adeguarsi alle norme di sicurezza anti Covid-19.

Lo scenario descritto è alquanto drammatico, ancor più se si pensa all’annunciato lockdown a intermittenza. C’è qualche spiraglio per l’ottimismo?

Difficile essere ottimisti al momento, meglio usare il “pessimismo dell’intelligenza” e, parafrasando Antonio Gramsci, prevedere la peggiore situazione possibile, di modo da poter mettere in movimento tutte le riserve di volontà e ottimismo, per essere in grado di abbattere l’ostacolo.

Occorrerà innanzitutto riposizionare il patrimonio culturale all’interno del pieno controllo pubblico, con risorse specificamente destinate dal bilancio pubblico, ridisegnando il suo ruolo educativo accanto alle scuole e alle biblioteche, al servizio dei cittadini, delle comunità locali; occorrerà che i cittadini (ri)prendano possesso del proprio patrimonio, partecipando direttamente, e senza scopo di lucro, alla cura e alla gestione del bene comune, e possono farlo in tanti modi (fondazioni e cooperative di comunità, fondazioni di partecipazione, ecomusei, etc.), generando ricavi e redditività reinvestibili nel miglioramento dei servizi.

È auspicabile che nei territori nascano reti museali in grado di affrontare il problema dei singoli musei in maniera aggregata e ottimizzarne la gestione, che possano garantirne più facilmente la sopravvivenza dei più piccoli.

In tema di pandemia, dunque, occorre “prendersi cura” dei beni più preziosi per uscire dalla crisi?

Cultura, ricerca, istruzione, sanità, biodiversità sono beni preziosi, non merce. Chi ci ha imposto il lockdown lo ha motivato con l’insufficienza dei posti in terapia intensiva: oggi dobbiamo innanzitutto pretendere la ricostruzione del Sistema Sanitario Nazionale, e pretenderlo distaccato da interessi privati, partendo dalle reali esigenze di cura delle comunità locali nei rispettivi territori. Le risorse si trovano, ci sono: patrimoniale, lotta all’evasione fiscale, riduzione delle spese militari, etc. Non dimentichiamoci, infine, che l’essere umano è storicamente condizionato dal rapporto con gli altri e con la natura, pertanto la sola ipotesi di un lockdown a intermittenza dovrebbe imporci questa via d’uscita.

*Luigi Di Gioia è nato a Canosa di Puglia e vive a Trani. Opera da oltre venti anni nel settore della gestione e valorizzazione dei beni culturali con cooperative e aziende private, associazioni e enti del Terzo settore e a stretto contatto con gli Enti pubblici, occupandosi anche di formazione ed educazione al patrimonio culturale con Istituti scolastici ed Enti di formazione. Ha conseguito diversi titoli accademici e formativi, tra cui una laurea magistrale in “Management dei Beni Culturali” presso l’Università di Macerata, una laurea in “Conservazione dei Beni Culturali” presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, un diploma universitario in “Operatore dei Beni culturali” presso l’Università di Bari, un master del FSE attuato dalla Scuola Superiore di Studi Universitari e di Perfezionamento Sant’Anna di Pisa presso il Pastis di Brindisi in “Turismo e Beni Culturali”.

lunedì 4 Maggio 2020

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