Attualità

Alveare. “La razza del mio cane”. La rubrica di Rino Negrogno

La Redazione
Axel
Abbiamo un bisogno irrefrenabile di distinguere le razze come se il pelo, gli occhi, il colore fossero elementi strettamente connessi all'amore e la lealtà che si possono dare e ricevere
scrivi un commento 181

Mentre passeggio con Axel, il mio cane, capita che mi trascini verso altri cani; il fatto mi tedia perché, essendo particolarmente introverso, la circostanza mi costringe a scambiare due parole con il proprietario del suo nuovo amico. Generalmente me la cavo con un buongiorno e un sorriso, ma le due domande che spesso mi rivolgono i cinofili è: «è maschio?» oppure «che razza è?». Il mio cane è un meticcio, sua madre è una volpina, il padre lo ignoro giacché, come spesso accade anche tra di noi, mater semper certa est pater numquam. Quando ho deciso di adottare un cane, soprattutto per accontentare mio figlio (mio figlio mi ricattava ponendomi l’alternativa tra un fratellino e un cane), ho senza indugio optato per un cucciolo abbandonato e, infatti, il mio cane è figlio di una cagnolina incinta abbandonata, non è di razza, non ha pedigree, in realtà non è nemmeno un cane, è una persona, è talmente umano che non è in grado di ritrovare un bocconcino di carne se cade dalla ciotola e fa parte di una famiglia tradizionale nel senso che tra di noi vi è amore, unica caratteristica che dovrebbe contraddistinguere una famiglia tradizionale.

Abbiamo un bisogno irrefrenabile di distinguere le razze come se il pelo, gli occhi, il colore fossero elementi strettamente connessi all’amore e la lealtà che si possono dare e ricevere; ebbene sotto la fulva borra del mio figliastro si annida un sentimento che raramente trova paragoni negli ariani.

Così accade che, a intervalli più o meno regolari, nei secoli, prosperi tra gli insicuri e gli ignoranti un’impellente necessità di distinguerci, ma non per meriti, per intelligenza, per capacità o per pazienza, bensì per razze, per benevolenza del fato, in poche parole, per il fatto di essere nati in un paese che la guerra e la miseria l’ha provata un po’ di anni prima o un paese che la sta provando ora. Questa fortuna, anziché spronarci alla riconoscenza, al tirare un sospiro di sollievo, a una solidarietà intrisa di reminiscenze e nello stesso tempo di previsione per un futuro non troppo roseo che potrebbe farci tornare al punto di partenza, la ruota gira e sta girando, ci esorta a sentirci una razza da preservare anche a discapito delle altre. «Sì ma questa è la nostra nazione, la nostra terra, il nostro popolo, la nostra razza – dicono taluni per giustificare il loro sentimento ancestrale – andassero a casa loro» e io penso fondamentalmente due cose: la prima è che la nostra terra, come tutte le altre terre, deriva da secoli di guerre e devastazioni, il più forte, spesso con il sostegno di Dei poco disinteressati, si accaparrava la zona migliore, poi si facevano altre guerre e la zona si arricchiva o diminuiva, accade ancora in qualche parte del mondo, e chi aveva la fortuna di ritrovarsi nella zona più ricca di acqua, di sole, di materie prime, diventava la razza perfetta.

La seconda riflessione è più importante: mi fa specie notare quanto ci teniamo cordialmente sui coglioni nella nostra razza superiore, tutti, anche con il vicino di casa, con il collega, con la ex moglie, però, quando c’imbattiamo in una persona di un altro colore o un disperato, un’altra razza insomma, quella persona ha la grande capacità di annullare all’istante ogni sentimento di acredine fino ad accomunarci tutti insieme e appassionati in un’unica razza superiore. E come ci vogliamo bene, come facciamo lega, persino il nord e il sud non esistono più!

Il mio cane, ogni volta che mi fanno la fatidica domanda mi guarda perplesso; l’ultima volta era una bellissima ragazza e lui mi ha strattonato, voleva andar via, a nulla e servito il mio tentativo di farlo desistere, gli ho detto: «Abbozza, la vedi che razza di femmina!» Nulla, si è scrollato qualcosa di dosso e trottando come un cavallo di razza se n’è andato.


BIO – Alveare – Lavoro per strada, in mezzo alla gente, ascolto il brusio e ho l’impressione di trovarmi in un alveare; salgo e scendo i gradini delle scale, entro ed esco dalle case, dai reparti ospedalieri, delle prigioni e ho l’impressione di entrare e uscire dalle celle esagonali dei favi di un alveare; scorro le notizie e le storie sul mio pc, su e giù e mi ritrovo di nuovo in un alveare di pensieri e avvenimenti; mi fermo un istante e nella mia mente nasce una storia. Lavoro come infermiere nel servizio emergenza urgenza 118 da quattordici anni ma ho la mania della scrittura, della poesia e del racconto e qualcuno è così folle da concedermi lo spazio per farlo, ma, tutto sommato, è meglio incontrarmi in veste di poeta e scrittore. Buona lettura.


Alveare 2017

1 Ernesto Che Guevara – 2 Al capezzale dei vecchi – 3 La visita medica – 4 Il sindaco è come il pesce – 5 L’incidente dell’ambulanza – 6 Le nonne che giocavano a tombola – 7 Vi racconto il mio primo appuntamento al buio con una donna – 8 Barresi-Bottaro: che brutta storia – 9 Lei è un medico? Una donna? – 10 Quello strano fascista di Pinuccio Tarantini – 11 Rossella è andata via da Trani – 12 Disabili vs. normodotati. Volete sapere chi ha vinto? – 13 Ciao Ivan, compagno di liceo – 14 Lettera di Gesù Bambino – 15 Non sparate a Capodanno

Alveare 2018

1 Il problema etico di Giuseppe Tarantini – 2 Il Pronto Soccorso – 3 Il corte di Acca Larentia


Altri articoli

Odierei gli indifferenti

venerdì 19 Gennaio 2018

Argomenti

Notifiche
Notifica di
guest
0 Commenti
Inline Feedbacks
Vedi tutti i commenti