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Coronavirus, il racconto di Giuseppe: “Ho combattuto e ho vinto”

Antonio Digiaro
Giuseppe Daquino
I primi sintomi, la corsa in ospedale, la paura di non rivedere i propri cari e poi la gentilezza e professionalità dei sanitari
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Questa è la storia di Giuseppe Daquino, giovane tranese di 23 anni, guarito dal Covid. Dopo un mese dalle sue dimissioni dall’ospedale, racconta la sua storia e dichiara di essere tornato finalmente alla normalità: è una delle storie più belle degli ultimi mesi, con un lieto fine ed un ritorno a casa commovente.

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“Ero in quarantena fiduciaria già da una decina di giorni, avendo avuto contatti con mia sorella, con me convivente e risultata già positiva. In questo periodo, pur rispettando le regole di comportamento prescritte dalla ASL, come da protocollo, e nonostante l’isolamento di mia sorella, ho cominciato a manifestare i primi sintomi. Dapprima un forte mal di testa e un lieve mal di gola, successivamente febbre molto alta che registrava quasi 40°. Così il medico segnalava anche me alla Asl e venivo convocato per un tampone molecolare nel giorno della vigilia di Natale, dal quale purtroppo, riscontravo per la prima volta la mia positività al Covid-19”.

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Le prima cure e il trasporto in ospedale. “Da questo momento cominciavo la cura prescritta dal medico a base di antibiotico e cortisone, senza però registrare miglioramento alcuno. Cambiavo così 3 volte cura da casa, su prescrizione medica, ma ancora nessun miglioramento. L’organismo non rispondeva a nessuna cura e la febbre persisteva sempre a temperature altissime fino al 30 dicembre, quando addirittura neanche scendeva col paracetamolo e cominciavo a desaturare. Così si decideva di accompagnarmi immediatamente presso l’Ospedale di Bisceglie per un ricovero urgente, avvenuto intorno alle ore 19.30 dello stesso giorno”.

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L'arrivo in ospedale e la sofferenza negli occhi. “Qui cominciavano le mie tristi e sofferte giornate in reparto Covid, circondato da tantissima altra gente nelle mie stesse condizioni e addirittura peggiori. Quella sera ricordo che c’erano tantissime urgenze e ricoveri e i medici erano stremati. Quella notte, al pronto soccorso, le ore sembravano interminabili e credo di non poterle mai dimenticare. Vedevo gente stare male e sentire le loro urla di sofferenza. Eravamo tutti in un unico grande corridoio separati solo da tende di materiale usa e getta. Ricordo tanta confusione e agitazione. Durante la notte assistevo anche a qualche decesso e vedevo barelle abbandonare il reparto con corpi senza vita. In in quei momenti ero molto terrorizzato, soprattutto quando, a seguito della radiografia e di analisi molto dolorose quanto indispensabili, come l’emogas, i medici riscontravano la tipica polmonite bilaterale acuta da Sars- Cov 2 e una saturazione al limite. Purtroppo la malattia, nella sua forma più aggressiva, aveva colpito anche me alla giovane età di 23 anni.

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Il trasferimento in terapia subintensiva. “Ero l’unico ragazzo più giovane ricoverato in quel reparto e ricordo che i medici erano un po’ sorpresi, oltre che dispiaciuti. Così decidevano di trasferirmi d’urgenza al reparto di terapia subintensiva di malattie infettive. Qui venivo collegato a numeri cablaggi, che monitoravano continuamente la mia situazione e respiravo tramite l’ausilio della maschera di ossigeno che dovevo tenere 24 ore su 24, senza potermi alzare dal letto per nessun motivo. In quegli attimi mi sentivo molto giù, non solo fisicamente ma anche psicologicamente. Avevo un profondo timore di non farcela, mi sentivo solo e senza forze. Pensavo che fuori da quell’ospedale, in quel preciso momento, c’era tanta gente della mia età che festeggiava l’inizio di un nuovo anno con le proprie famiglie, mentre io potevo soltanto abbracciare la mia famiglia virtualmente, attraverso una videochiamata. Stavo combattendo la difficile battaglia con un nemico invisibile e molto aggressivo: era il 1° gennaio e io mi risvegliavo pieno di dolori e psicologicamente a terra. In quei momenti mi sono stati tanto d’aiuto, oltre alla mia famiglia a distanza, tutti i medici, gli infermieri e gli operatori socio sanitari che, con dei piccoli gesti di affetto, cercavano di risollevare l’atmosfera per tutti i ricoverati in quel reparto. Erano tutti uguali tra loro, bardati all’interno di una tuta bianca come si vede in tv e dietro recavano il loro nome o soprannome con la scritta “Buon anno, forza e coraggio!” e, nonostante la difficoltà anche per loro, cercavano in tutti i modi di portarci un po’ di positività e leggerezza. Per me sono stati come una seconda famiglia in quel momento. Ho assistito a manifestazioni di sensibilità e umanità uniche e mai viste prima.

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Il ritorno a casa. “Dopo una settimana, fatta di giorni che si susseguivano tutti uguali tra loro, fortunatamente le mie condizioni di salute miglioravano lentamente e i medici decidevano di trasferirmi nel reparto Covid-2, dove c’erano casi meno gravi. E’ stato in quel momento che cominciavo a vedere uno spiraglio di luce in fondo al tunnel. Tra tutte le feste trascorse in ospedale, ricordo in particolare l’8 gennaio, giorno del mio compleanno e come regalo non desideravo altro che la fine della malattia. Purtroppo non fu così, perché il tampone registrava ancora la mia positività, ma finalmente i medici decidevano di togliermi pian piano la maschera dell’ossigeno che mi rendeva un po’ più libero nei movimenti e un po’ più indipendente. Pian piano fortunatamente registravo miglioramenti giorno per giorno, fino a circa la metà del mese di gennaio quando finalmente i medici decidevano di dimettermi e finalmente potevo tornare a casa dalla mia famiglia. E’ indescrivibile poter raccontare la gioia che si prova nel poter ritornare alla vita quotidiana dopo la brutta esperienza vissuta in ospedale.

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Un messaggio di speranza. Come ho scritto nel mio post su facebook, dopo circa un mese dalla dimissione ospedaliera, da questa esperienza ho capito che non c’è nulla di più importante della salute e tutti dobbiamo averne cura ogni giorno nei comportamenti quotidiani, come l’utilizzo di tutti i dispositivi di sicurezza importantissimi per evitare il contagio e come i vaccini che sono convinto sconfiggeranno definitivamente questo terribile virus. Sono grato alla vita per avermi dato una seconda possibilità e prego ogni giorno per coloro che stanno combattendo la mia stessa battaglia con la speranza di sconfiggerla, uscendone vincenti e migliori. Da questa esperienza ho avuto anche la prova di una profonda umanità da parte dei medici, infermieri e di tutti gli operatori sanitari che prima di essere professionisti, in questa battaglia, hanno dimostrato di essere prima di tutto esseri umani straordinari, sostituendosi a genitori, fratelli e amici in quegli attimi davvero brutti e che sembrano senza speranza per tutti. Loro, infatti, sono i primi a rischiare ogni giorno e non è facile lavorare in modo straordinario nonostante le numerosissime difficoltà che devono affrontare tra reparti saturi e mancanza di personale e strutture necessarie. A seguito di questa esperienza si sono create amicizie speciali come quella con Emanuele (O.S.S. mio concittadino ritratto con me in foto), che in quei giorni è stato per me come un fratello maggiore sempre pronto a incoraggiarmi e rallegrarmi nonostante tutto. Io nel piccolo, dopo questa esperienza, continuerò a essere d’aiuto per molte persone che ne hanno bisogno, perché spesso basta poco per poter regalare un sorriso nei momenti di grande sconforto e sofferenza. Per il futuro spero che questa esperienza insegni a tutti, specialmente ai più giovani, un po’ più di gratitudine verso la vita e, soprattutto, ad essere più responsabili verso sé stessi e verso gli altri senza sfidare la sorte con comportamenti imprudenti, perché questo virus non risparmia nessuno e io l’ho capito sulla mia pelle”.

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venerdì 26 Febbraio 2021

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